Papà parcheggiava la sua junior 1600 rossa sempre nello stesso posto quando salivamo insieme a Catanzaro. Fra la chiesa di San Giovanni dei Cavalieri, non ancora monumentale, e una stradina parzialmente occupata da grandi ed inquietanti cose di ferro dalle forme affascinanti. Erano gli anni ‘70 ed anche a Catanzaro si respiravano venti diferenti. Il fervore della Nazione in trasformazione si respirava normalmente anche in questa città che ambiva ad essere da tempo capoluogo di Regione. In quelle strade, in quei vicoli, si annusava la tradizione e l’innovazione allo stesso tempo. Le opere che inconsapevolmente occupavano lo spazio della città erano il risultato di un signore con il cappello sempre in testa. Lo chiamavano e lo
chiamano anche oggi U Ciaciu, al Secolo Mastro Saverio Rotundo. Fabbro, artista metal meccanico e visionario, raccoglitore seriale dei nostri scarti, regala da molti anni la sua visione dell’arte forgiando e imponendo allo spazio una riflessione su chi, il dove e sul perché stiamo percorrendo una strada. Lo hanno definito uno zingaro dell’arte forse per la sua capacità di rimettere in moto la fantasia in una fucina che dall’idea passa velocemente alla critca dell’esistenza. Anche chi grida capra in televisione ha avuto modo di definirlo l’ultma delle meraviglie della Calabria. Un artista che mi ha sempre sorpreso per il suo barocco, anzi per il suo modo di essere esso stesso post barocco.
Lo vidi un giorno per caso su un altro mio servizio alla Accademia delle Belle Arti di Catanzaro e lì, in quel luogo di formazione, prendeva il suo posto di Maestro. Accolto dagli studenti che si spostavano fra le classi come un esempio vivente di longevità artistica e come tale assediato da tutti e tutte. Molti gli sottoponevano lavori, disegni, proposte di collaborazione e tentatvi di rubare l’arte dalle sole parole che pronunciava con la sua voce forte come il suo ferro ma roca e sporca come le colature delle saldature. Lo avevo ritrovato in carne ed ossa. Lo avevo lasciato parcheggiato accanto
alla Junior Rossa di papà, ed ora, lo conosco come icona pop non solo di Catanzaro ma del mondo intero. Entro fnalmente nel suo studio affollato di materia. Una luce che è lama taglia, il nero dello studio cadendo sul suo viso mentre si avvicina ad un qualcosa che poi diventerà opera solo ponendolo al centro di una stanza piena di anime. Sono le anime di tutto il nostro mondo rifutato ed abbandonato alla polvere e ruggine che vengono ricomposte nelle sue visioni. Non ho mai voluto sottoporlo ad una sessione di scatti. L’ho vissuto al bar, durante una passeggiata e anche nel suo studio ho cercato di prendere la sua anima restituendola piano senza modifcarne l’essenza, per come l’ho conosciuto e per come è riuscito a riportarmi indietro nella memoria. Ho riannusato nel suo studio l’odore dei sedili della macchina di papà e il profumo dei cibi forti che invadono come allora le mie narici. Ho toccato le cromature e la ruvidezza del ferro. Ho guardato il suo cappello e la polvere di limatura sulle sue lenti. A Mastro Saverio Rotundo devo un saluto. A Mastro Saverio Rotundo devo un emozione.
Oreste Montebello